venerdì 30 marzo 2012


Oggettività e soggettività nelle arti figurative
Alberto Gianquinto

 

Arte concettuale, arte astratta, arte mentale


     Duchamp ci pone una interessante questione epistemologica: la sua arte sarebbe da considerare (anche secondo Argan) puramente ‘mentale’, perché l’ ”icona-segno” (il messaggio visibile), che la esibisce (e su cui può industriarsi il critico), sarebbe soprattutto un “simbolo” che non visualizza, in quanto non può visualizzare ciò che non è visibile; in effetti, ci sarebbe un’intenzione simbolica dell’autore, la cui rappresentatività è “altra” da quella intenzione che potrebbe forse essere intuibile, anche quando non visualizzabile dall’osservatore: l’icona, il “segno visivo”, è “simbolo” di un atto o di un processo, che, in questo senso, è puramente ‘mentale’.
     Intendiamoci: dietro l’icona-segno c’è sempre un’intenzione immanente del suo autore (che può oscillare dall’intenzione esplicita-voluta a quella implicita, puramente immanente all’opera): intenzione, che non coincide mai con il segno visibile; questa distanza fra segno visibile e intenzione è costitutiva del dato artistico (se e quando c’è) dell’opera.
     Ma l’ “icona”, per definizione, è, di fatto, un “segno visivo”, che, come tale, deve avere un rapporto di somiglianza – sia pure anche intenzionale – con unarealtà’ (sia esterna che interna all’autore), in quanto presenta (deve in qualche modo presentare) le stesse caratteristiche dell’oggetto:  vale a dire, lo denota (deve denotarlo). L’icona-segno denota un oggetto reale, esterno (oggettivo) o interno (soggettivo).
     Ma se la realtà di cui si parla è ‘mentale’, non visibile, l’icona dovrebbe essere un segno denotante un oggetto intenzionale (un denotato intenzionale). Dobbiamo supporre, allora, che l’icona sia un segno visivo che – almeno quanto alla realtà ‘mentale’ – possa non avere nessun rapporto di somiglianza ‘oggettiva’ con essa. Quell’icona “connota” allora l’oggetto intenzionale, ma non può certo “denotarlo”. In tal caso, l’icona-segno è un “simbolo particolare”, dato che il ‘segno’-icona – certo “visivo” di una realtà (esterna, visibile appunto) –ha la pretesa di essere anche simbolo di una realtà interna (appunto non più visibile) e di alludere allora solo come “simbolo” – non come segno visibile – ad essa.
     Ma l’icona potrebbe anche non alludere a ciò che il suo segno pretende di essere in quanto simbolo: il segno e il simbolizzato non avere alcun rapporto fra loro. Il contenuto intenzionale (simbolico) non è allora identico (o somigliante) alla forma data dall’icona-segno.
     L’icona può pretendere così – come segno di realtà peraltro non visibile – di possedere una sua potenza iconografica ‘specifica’, fondata  su una iconologia ad hoc (quella che è dettata dall’autore stesso). Ma si deve tenere anche conto che una iconologia-iconografia, che sia fondata su un solo individuo, cesserebbe ipso facto di essere tale, perché non potrebbe essere simbolica, se non per il suo creatore: essa non comunicherebbe che a lui stesso. Ma allora, di tutto ciò nulla si saprebbe.
     Voglio ricordare quanto altrove ho detto, che un elemento specifico dello sperimentalismo contemporaneo è lo spostamento tematico di queste forme d’opera ad una riflessione sull’opera stessa: spostamento, che viene operato attraverso la medesima attività dell’autore: cioè, attraverso una riflessione compiuta con e nell’opera stessa.
     In Ad Reinhard è l’eliminazione dei fattori componenti – spazio, luce, colore, movimento – (data e presupposta ormai dall’autore l’irraggiungibilità dell’obiettivo “natura”), a far sì che l’opera – critica (di se stessa) – intesa come “morte dell’arte” (per eliminazione di quei suoi inutili e impossibili fattori) – si ponga a contenuto dell’opera stessa.
     Quindi: la forma non può ‘esprimere’ più il contenuto, ma può essere ed ‘è’ essa stessa il contenuto; il messaggio critico dell’autore (l’icona, come segno visibile) non è ‘espresso’ attraverso la forma assunta, ma ‘è’ la forma stessa (la tela nera). Senonché il linguaggio pittorico non ha la ‘secondarietà’ del linguaggio verbale (cioè l’autoreferenzialità di poter ‘dire’ attorno a se stesso). L’opera non comunica la critica (morte dell’arte), ma comunica il nero della tela (questo è il contenuto-segno dell’icona-opera).
     Insomma, in Ad Reinhard l’icona-segno è una forma che è anche contenuto: quindi non rappresenta (non esprime) che se stessa. Per un verso l’icona, come segno ‘esterno’, visibile, è la forma nera ed insieme il contenuto-colore nero; ma, per un altro verso, l’icona – non esprimendo – ‘intende’ intenzionalmente dare alla forma un contenuto “altro”, immanente per così dire, ‘interno’, non visibile: un contenuto, che ‘intende’ essere il concetto “la morte dell’arte”. Con questo Ad Reinhard avrebbe creato una sua iconografia ad hoc. Il contenuto interno non è ‘espressoattraverso la forma (non è messaggio): per cui, di fatto, non c’è espressione. Resta (ma non nell’intenzione dell’artista) la pura icona-segno, non un “simbolo” di una espressione (che non c’è, se non nell’intenzione dell’autore). L’iconografia, per cui quell’icona potrebbe esprimere un contenuto (un segno iconico che diventerebbe allora iconografico), non c’è, se non come intenzione dell’autore. Una effettiva iconografia può realizzarsi solo come prodotto iconologico di una comunità che condivida il ‘sensointensionale (nel valore logico-formale del termine[1])  e il ‘significatoestensionale (ancora nel valore logico-formale) del segno (qui l’estensione è ‘uno’, vale a dire che è senza comunicazione ad altri: e dunque è inconoscibile).
     Posti con ciò i termini della questione (icona, segno, simbolo, messaggio, espressione, forma, contenuto, ‘esternità’ e ‘internità’ al segno, iconologia ed estensione iconografica), vediamo allora quanto accade nell’arte astratta: poniamo Mondrian o Kandinskij.
     L’arte astratta non ha altro contenuto che la sua stessa forma. È parimenti vero che anche l’opera concettuale (critica) non ha altro contenuto che la sua stessa forma; ma l’arte astratta (si pensi a Vasilij Kandinskij, Abbozzo per composizione IV o a Piet Mondrian, Composizione in rosso, nero, blu, giallo e grigio), in quanto priva di un contenuto ‘altro’ (intenzionale), trova come suo contenuto, ‘espresso’, proprio la sua forma astratta (le linee ed i colori di quelle opere); l’arte concettuale (critica), invece, ‘presume’ di dare alla sua forma (il nero della tela) un contenuto altro (intenzionale: “la morte dell’arte”), che non è espresso nella sua forma.
     L’arte concettuale, nell’identità di materiale formale dell’opera e di idea critica, coglie l’idea come opera, coglie il concetto come materiale, non attraverso l’opera, ma lo pretende come espressione mediata nell’opera. Nell’arte astratta c’è ancora “espressione”; in quella concettuale non più (se non nell’intenzionalità “esplicita, voluta, dichiarata”). Nell’arte astratta c’è ancora un segno che è simbolo; in quella concettuale non più (se non con un riferimento al voluto contenuto intenzionale).
     Data l’‘identità’ forma-contenuto, nell’arte concettuale la forma, che pretende di ‘raffigurare’ il contenuto proprio come ‘idea’ (un contenuto nero, sostituito dall’idea “morte dell’arte”) è anche forma ‘senza’ contenuto semantico (proprio senza l’idea, che è assente nel suo contenuto effettivo, visibile: il nero), nel senso di non essere ‘riferibile’ a quell’intenzione significativa; forma, che, solo come atto critico ‘distinto’ avrebbe potuto ‘raffigurarlo’, quando invece lo ha semplicemente cancellato, identificandovisi.
     Nell’arte ‘mentale’ di Duchamp (il Grande Vetro o La mariée  mise à nu par ses célibataires même, con colori a olio, fogli di piombo e argento tra pannelli di vetro chiusi in telaio di legno e acciaio, 272,5 x 173.8, Philadelphia Museum of Art), l’icona-segno, messaggio visibile, esterno, è il vetro, mentre il simbolo intenzionale, mentale, è (nell’intenzione dell’artista) quanto espresso nel titolo. La forma non restituisce il contenuto interno, se non nell’intenzione iconografica dell’artista. La differenza con la ‘concettualità’ di Ad Reinhard è che (qui, a differenza di Ad Reinhard) il contenuto intenzionale è altro dalla forma: non c’è l’autoreferenzialità del ‘tema’ con la forma (il vetro). La differenza con l’arte astratta è che (a differenza di Kandinskij o di Mondrian) il contenuto dell’opera non è identico alla sua forma.
     Insomma: in Duchamp (arte mentale) il contenuto intenzionale non è identico ed è altro dalla forma dell’opera: in Ad Reinhard (arte concettuale) il contenuto intenzionale è identico, ma anche altro dalla forma; nell’arte astratta, il contenuto (non più intenzionale) è identico e non altro dalla forma.

Sulla storia dell’oggettività


     Certamente ‘oggettivo’ è solo il segno iconico: un segno, che può essere dato anche direttamente in natura, come lo sono gli alberi, ‘iconologizzati’ nella cultura celtica o tutti quei segni della natura che sono anch’essi ‘iconologizzati’ nelle culture indie.
     L’icona (immagine), nella sua oggettività di segno visivo può avere un rapporto di raffigurazione (più o meno naturalistica) e anche di somiglianza (perfino di copia) con la realtà (così la chiameremo questa seconda oggettività, sia ‘ontica’, di esistenza esterna al segno, sia oggettività di esistenza intenzionale-soggettiva, ma oggettivamente restituita’, sebbene, in quanto intenzionale, per così dire ‘interna’ al segno): realtà, che viene allora denotata dall’icona in quanto simbolo (per esempio, la donna che porge la mela appartiene alla realtà oggettivaesterna al “segno” di una “donna che porge la mela” – ma appartiene anche al “simbolo della verità’, espresso da quel ‘segno’: ‘realtà’, dunque, in tal caso, di un’esistenza intenzionale, soggettiva, interna al segno come simbolo, in quanto espressa dal simbolo).
     Questa denotazione simbolica della realtà può avere origine culturale di valore magico o origine mnestica e avere o non avere origine osservativa, soggetta questa o meno ai canoni dell’artista.
     E ancora, questa denotazione simbolica, questo rapporto, in quanto tale si duplica come espressione, con due termini distinti: la forma iconica e il contenuto di quella somiglianza con la realtà, espresso dalla forma. Tale espressione è un messaggio, quando e in quanto sia comunicato.  Il contenuto può essere di realtà esterna o di realtà interna (di intenzionalità soggettiva) al segno, determinando una estensione iconografica, che può ridursi al singolo, abolendo con ciò la comunicazione e quindi anche l’iconologia intesa.
     Ma quando l’icona-segno non denota una realtà né connota un’intenzione immanente (esplicita o implicita che sia), quando si spezza il rapporto del segno visivo con ogni valore simbolico diretto, quando il contenuto intenzionale è altro dalla forma, quando l’intenzione (esplicita o implicita che sia) è altra dall’icona-segno, allora il carattere mentale o concettuale dell’opera va perduto: scompare la sostanza dell’opera (che avrebbe potuto farsi arte), scompare l’espressione di un contenuto (raffigurazione, senso e significati), scompare la comunicazione.

Sui canoni soggettivi (stile) della oggettività

     Se guardiamo alla Storia dell’arte di Gombrich, sembra (ma non saprei dire quanto esplicitamente) che, immanente, vi sia una sorta di tendenza, un ‘progresso’ nell’arte verso la costruzione e il raggiungimento di una ‘oggettività’ in sé (alla conquista di una ‘realtà’), perseguita secondo tradizioni e attraverso rinnovamenti  con sbalzi, biforcazioni e deviazioni – fino a raggiungere un’armonia dei suoi costituenti interni, difficilmente superabile, che poi rompe la tradizione fino allora perseguita, in una crisi rivoluzionaria (dalla fine del ‘700 in poi) verso nuovi ‘canoni’ soggettivi. Sicché tutti i ‘canoni’ costituiti nel corso della storia sarebbero da intendere come passi di un processo di avvicinamento alla ‘realtà’ in sé del mondo ‘oggettivo’, ma poi come passi verso l’assoluta soggettività dell’arte sperimentale; insomma: non ‘canoni’ da intendere come pure modalità di costituzione (di creazione) di quella specifica oggettività che sta a fronte delle icone dell’opera d’arte, bensì come modalità appartenenti ed imputabili solo al puro percorso storico.
     Mi spiego: a differenza della scienza, dove la ricerca e la scoperta costituiscono e fondano una ‘ontologia’ (unico percorso determinato dalla falsificabilità delle ipotesi), nella ricerca e nella creazione dell’arte, invece – anche se l’obiettivo di essa può essere (stato) in determinati periodi la determinazione e la fissazione di ‘canoni’ sempre più validi nella rappresentazione e nella raffigurazione reale della natura – ogni insieme di questi canoni ha costituito e costituisce sempre una sua ‘realtà’ ed anche una sua ‘oggettività’, che possono venire rivisitate – l’una e l’altra – e modificate da altri artisti (senza pregiudizio alcuno per quanto fatto prima); un insieme, che resta pertanto individuale ed unico. Unico, come insieme di canoni (ma non di percorso) e costituente una ‘soggettività’ specifica (diversa dalla soggettività della unitaria comunità degli scienziati), ma capace di costruire la ‘sua’ oggettività e la sua realtà; in ultima analisi: senza relazione indissolubile con ogni altra soggettività.
     Chiarisco meglio la distinzione fatta di ‘realtà’ e di ‘oggettività’: con quest’ultimo termine si dovrebbe intendere essenzialmente il campo che si pone come correlato esterno, non soggettivo, dell’icona-segno; con il primo, invece, il campo correlato interno ed esterno (soggettivo ed oggettivo): sicché, nella relazione del ‘segno’ al correlato del segno, questo correlato dobbiamo, per chiarezza e per tradizione logico-formale, indicarlo direttamente come ‘oggettivo’;  nella relazione, invece, del ‘simbolo’ al suo simbolizzato, il suo correlato è ‘reale’ (e può essere oggettivo o soggettivo).
     Baudelaire[2] ha opportunamente sostenuto l’inapplicabilità dell’idea di ‘progresso’ nelle belle arti; ma le sue argomentazioni non sono in contrasto con la teoria di Lukács,[3] secondo cui l’oggettività è anche legata alla storia della società. Nel contrasto che questi delinea fra l’approccio letterario di Zola e quello di Balzac, i problemi sociali, ‘descritti’ nel primo come fatti, sono invece ‘narrati’ nel secondo, diventando in tal modo ‘oggettivamente’ rilevanti. Questa rilevanza ‘oggettiva’ è in effetti soltanto “un dato storico”: una rilevanza, che si comprende solo attraverso i problemi che si aprono nella storia. Per dirla con Gramsci, se il senso della storia si comprende attraverso i problemi che vi si vengono a porre, il progresso, in date circostanze, può essere antistorico e reazionario e va distinto dalla storia in cui si realizza. La relatività anche temporale del suo valore, il suo stretto ancoraggio alla politica,  finiscono per escludere da esso il potere di rappresentare (per la storia) un senso. Quindi, la posizione di Lukács non contrasta con quella di Baudelaire: ‘narrare’ è (culturalmente-politicamente) più progressivo del ‘descrivere’, ma non c’è, con questo, un progresso nella “storia dell’arte”.
     Inoltre l’oggettività ‘segnica’ e la realtà ‘simbolica’ nulla hanno a che fare con questioni di progressività dell’arte. I ‘canoni’ possono tendere all’oggettività del segno o alla più ampia realtà (anche intenzionale) del simbolo: questa è decisione della creatività artistica, che attende sempre una ‘conferma’ culturale, sociale e storica. Non è dato sapere della ‘fecondità’ futura dei canoni artistici nella ‘costruzione’ del correlato del segno-simbolo.
     L’arte non ha dunque smarrito nessun orientamento, perché non è percepibile un ‘orientamento’ nella storia: l’esigenza di “dipingere ciò che si vede”  non è orientata verso l’oggettivo o verso il reale, non verso un’imitazione esterna o una persuasività (esterna o interna): e non solo nell’animazione del volto, ma nel costruire modalità sempre più profonde di figuratività (esterna) o di non-figuratività (ossia: di figuratività interna). Sarà la cultura della società a poter prendere posizione (politica?) in un determinato senso.
     L’insoddisfazione per le stilizzazioni egizie ed assire ha generato (ma senza superarle definitivamente) i nuovi canoni di armonia e di equilibrio dell’arte cretese e poi greca. La scoperta dello scorcio, del piede frontale e del movimento nella Grecia del VII-V secolo non si collocano su un percorso costitutivo di approfondimento oggettivo della natura. Il cubismo ha riproposto positivamente, fra l’altro, proprio l’arte di egizi ed assiri. E la ‘rivoluzione’ impressionista ha rimesso in discussione, in tutt’altro modo, l’arte cretese, greca e romana. La magia e la religiosità dei primitivi e delle culture etniche si sono riproposte quasi incessantemente nella storia.
     Ciò posto, è facile ora affrontare anche la questione di ‘oggettività’ e ‘realtà’ nell’arte di artisti come, poniamo, Calabria (pur affermando la soggettività dei loro ‘canoni’ di spazio e di materia), a fronte della soggettività, invece costitutiva, delle opere di Bacon, di quello specifico espressionismo che si colloca all’origine della “nuova figurazione”. “Dipingere in trance”, in una “percezione nervosa” e “di ossessività psichica” “della condizione di esistere”, che crea “morfemi psicotici” e ritaglia dentro la tela “uno spazio retinico soggettivo”, dove si colloca un’“esperienza esistenziale”, di complessità psichiche “che patologizzano [soggettivandolo] il rapporto col reale”, e di distorsioni “di lenti e specchi […] laceranti”, che non provengono da un dramma soggettivo, interiore, ma dall’oggettività “coercitiva e torturante al limite della mutazione genetica e antropologica” dell’“azione dell’ambiente”: questa libera sequenza di citazioni da Luigi Ficacci[4] su Bacon testimonia di una lontana oggettività, che resta soltanto causa di una mutazione, che è invece solo tutta interna e soggettiva.
     Se in Duchamp, allora, l’icona (segno denotante un oggetto intenzionale) è simbolo di un processo ‘mentale’ che non visualizza e non comunica se non attraverso parole (cioè con un altro linguaggio), in Bacon, invece, l’icona, anch’essa segno di un oggetto intenzionale, è simbolo – nella realtà esterna, oggettiva, del segno – di una soggettività: un’icona, che restituisce l’intenzione soggettiva come oggettiva; la forma iconica ‘esprime un contenuto simbolico interno con un contenuto segnico esterno. In Bacon – a differenza dell’arte mentale di Duchamp, di quella concettuale di Ad Reinhard, di quella astratta di Kandinskij o di Mondrian – il contenuto intenzionale (interno) è tutto espresso nella forma segnica (esterna). E così è per il suo “spazio retinico”, a differenza dello spazio topologico di un Calabria, simbolicamente reale, ma di una implicita intenzionalità, nei suoi creativi canoni soggettivi.


[1] Intensione ed estensione sono termini che stanno per connotazione e denotazione: un segno denota la propria estensione e connota o esprime la propria intensione. Cfr. anche E. Casari, Lineamenti di logica matematica, Feltrinelli, Milano 19613, p. 21 sgg. Così, dal punto di vista estensionale dire Socrate o dire “maestro di Platone “ è la stessa cosa; ma non dal punto di vista intensionale. ‘Intensione’ è quindi termine diverso da ‘intenzione’.
[2]  Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, Metodo di critica. Dell’idea moderna del progresso applicata alle belle arti. Spostamento della vitalità, p 183 sgg.
[3] György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1964; cfr. Narrare o descrivere?, pp. 269-323.
[4] Luigi Ficacci, Caravaggio Bacon: lo spazio e la realtà, p. 85 sgg., in Caravaggio Bacon, Roma, Galleria Borghese, 2 ott. 2009 – 24 genn. 2010, Catalogo Federico Motta ed., Milano 2009.